Libri che parlano di libri.
Un filone narrativo che negli ultimi anni sta diventando sempre più interessante.
Oggi vi parlo di Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici, di Daria Bignardi, che ha presentato qui a Milano la sua ultima uscita.

Sono stata subito attratta da questo libro, perché credo che il titolo scelto sia veramente accattivante per gli amanti della letteratura. Dietro c’è, ovviamente, un bel lancio pubblicitario, considerato che l’autrice è una delle più note voci del giornalismo italiano.
Alla presentazione in libreria sento uno strano fermento nell’aria. C’è folla, gente che si accalca per prendere posto sugli spalti. Se mi distraggo un attimo, sembrano quasi lontani i tempi del Covid.
Tutto il male non ha sopito l’interesse e l’amore per la cultura.
Appena Daria arriva parte un applauso. Si sfila la giacca e si prepara per il firmacopie che ci sarà dopo. Deve essere una bella sensazione, penso, vorrei provarla anche io un giorno.
A volte anche solo il semplice immaginare qualcosa può suscitare un’emozione simile al viverla.
Libri che mi hanno rovinato la vita è un romanzo d’amore, parla del colpo di fulmine tra Daria stessa ed i libri. Avendo avuto una madre molto ansiosa, che la teneva spesso chiusa in casa per proteggerla dal mondo, iniziò a dedicarsi alla lettura senza mai smettere. La storia è autobiografica, mette in luce come i libri possano essere considerati degli incontri decisivi in alcuni momenti della vita, al pari delle persone.
Quando scriviamo, tiriamo fuori tutto quello che abbiamo dentro da sempre. C’è una magia, improvvisamente, parte l’ispirazione.
Raccontare significa mettere a fuoco, tirare fuori.
Questo è il processo che l’autrice applica, ripercorrendo la sua vita da un punto di vista puramente letterario. Parla dei suoi tormenti, dei suoi demoni, di come leggere determinate pagine l’abbia influenzata e, al tempo stesso, sconvolta.

“La letteratura fa bene perché deve rovinarci la vita”, nel senso che può avere un impatto talmente forte su di noi da potersi chiamare arte, catarsi, passione.
Questo libro parla di come, soprattutto in gioventù, ci sentiamo attratti dalle cose che sappiamo ci faranno soffrire, dalle trasgressioni e da quella sensazione di sentirci vivi che si prova durante l’errore.
Non a caso, Daria cita tra i suoi libri “maledetti” Il demone meschino di Sologub, La foresta della notte di Barnes e Così parlò Zarathrusta di Nietzsche.
Come scrisse V. Woolf, a volte ci deprimiamo perché ci stanchiamo di “sentire tanto”. Quando ci sentiamo giù di morale, abbiamo l’impressione che la nostra vita sarà sempre così.
La riflessione principale che suscita la lettura è questa: la conoscenza deve necessariamente passare attraverso il dolore?
C’è per forza bisogno che qualcuno ci faccia del male per capire chi siamo? O noi, inconsciamente, scegliamo e siamo attratti da ciò che ci rovinerà la vita, in modo da diventare ciò che siamo destinati ad essere?
Concludo con una citazione che Daria Bignardi inserisce su Raymond Carver, uno degli scrittori americani che preferisco anche io.
Uno di quelli che sapeva descrivere bene il buio ma che, alla fine, scelse la luce.
“E hai ottenuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos’è che volevi?
Potermi dire amato, sentirmi
amato sulla terra.”