L’inferno è una buona memoria

Si può scrivere una recensione di una recensione? Credo di sì. E si può scrivere di nuovo una storia già raccontata per secoli secondo i criteri attuali della parità di genere? Anche ciò è probabilmente possibile.

di Lidia Landriscina

L’operazione che mi appresto a compiere è relativa al libro di Michela Murgia L’inferno è una buona memoria, a sua volta memoir letterario del romanzo medioeval-fantasy Le nebbie di Avalon (1983)della scrittrice americana Marion Zimmer Bradley.

Forte della sua ben nota esperienza di critica letteraria, Murgia recensisce questa rivisitazione fantastica della materia narrativa appartenente al ciclo bretone incentrato, in particolar modo, sulle vicende del leggendario Re Artù.  Si faccia attenzione, tuttavia, a non identificare quest’opera di Michela Murgia come una mera recensione della saga di Zimmer Bradley: si tratta, altresì, di un testo che sembra voler andare oltre il primo obiettivo prefissato e arriva a costituire un libro ben più ambizioso, che insieme vuole assurgere a rievocazione del suo approdo all’ideologia femminista e fornire al lettore una lezione di cosa significhi, oggi, scrivere un’opera letteraria nel rispetto dei criteri dell’uguaglianza di genere.

Sarebbe, infatti, proprio in seguito alla lettura de Le Nebbie di Avalon che la allora trentenne Michela Murgia sarebbe giunta alla conclusione che un altro genere di narrazione, non più incentrato sul mondo maschile, fosse possibile.

Ma che cosa ci sarebbe di femminista nella vicenda del leggendario re Artù, con le sue virili battaglie contro i Sassoni, lotte di potere e discussioni attorno alla Tavola Rotonda?

La risposta che sembra dare Zimmer Bradley con la sua opera, e che Michela Murgia sembra a sua volta avvalorare con le sue riflessioni, è che un testo non sia necessariamente femminista per via di una determinata trama, ma piuttosto per la modalità con cui essa è narrata. La sostanziale rivoluzione messa in atto dalla scrittrice de Le Nebbie di Avalon sta, a parere di Murgia, nell’ aver re-interpretato la vicenda attraverso il punto di vista dei personaggi femminili (Ingraine, Morgana, Ginevra, etc.): i loro pensieri, sentimenti ed emozioni hanno infatti nel romanzo un’ampiezza nettamente superiore rispetto a quelli dei personaggi maschili (il Merlino Taliesin, Artù, Lancillotto, etc.). 

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All’inizio della narrazione, gli uomini sono vassalli del re morente Ambrosio, il vecchio sovrano romanizzato che aveva combattuto per anni contro i Sassoni. Il vuoto di potere conseguente alla morte del sovrano si traduce, com’è logico, in una lotta per la supremazia: eppure, uno degli elementi più particolari di quest’opera è il fatto che Zimmer Bradley dedichi poco spazio alla descrizione degli intrighi di potere per la conquista del trono (che pure costituiscono la premessa alla narrazione), preferendo soffermarsi sulla contestualizzazione delle figure femminili all’interno dell’antica spiritualità celtica.

Essa viene rappresentata come culto nei confronti delle forze naturali, di cui le sacerdotesse erano le principali custodi. Zimmer Bradley immagina che l’isola sacra di Avalon, dove la nascita di Artù era stata predetta, sia dimora di sacerdotesse dotate di un grande potere politico, trasmesso per via matrilineare. Le sacerdotesse di Avalon proteggono il popolo dei Pitti e seguono l’antichissimo culto celtico, riconoscendo il potere della Dea Madre. Di fronte all’avanzare vittorioso del Cristianesimo, ormai adottato da quasi un secolo dai Britanni, le sacerdotesse di Avalon rifiutano di venire a patti con esso, neppure attraverso una qualche forma di sincretismo: esse resistono strenuamente per la conservazione della propria identità religiosa e, con essa, di una certa forma di potere sugli uomini. I loro omologhi maschili, i druidi, hanno invece ceduto in maggior numero al nuovo credo: non tanto per una scelta di realpolitik, ma proprio perché, in fondo, non avrebbero molto da perdere in uno scenario politico-religioso con uomini a capo della Chiesa.

Il contesto tratteggiato dall’autrice affonda le sue fondamenta in una realtà storica: la sfera del sacro era in effetti l’ambito in cui la donna dell’antica società celtica aveva maggior possibilità di esercitare una forma di potere e libertà, nettamente maggiori rispetto a quelli sperimentati dalle donne del mondo classico mediterraneo. Le donne costituivano infatti una vera e propria élite intellettuale in ambito religioso, essendo esperte anche, oltre che di tutto ciò che concerne la sfera del sacro, di medicina, erboristeria e di molte altre discipline.  

Una delle tematiche più importanti della saga di Avalon, e forse anche la più anticonvenzionale, è proprio la contrapposizione fra il tradizionale paganesimo celtico e la nuova religione cristiana, che sembra voler annullare ogni forma di potere spirituale femminile (essendo basato, come afferma il personaggio di Morgana, su un Dio che “si fa uomo invece che donna”, ovvero su due modi diversi di interpretare il concetto di divinità). La divinità cristiana è vista dall’autrice come maschile, patriarcale, univoca, mentre quella della dei Pitti è una divinità dai molti volti, che riconosce un ruolo importante alla Dea Madre.

L’autrice pone dunque una connessione, audace e per questo interessante, fra il conflitto di genere e la questione religiosa: in altre parole, l’autrice accusa il monoteismo di una certa tendenza ad escludere l’idea di pluralità, intesa sia come eterogeneità di tradizioni religiose che come apertura all’altro sesso. Per questo motivo il titolo del libro di Murgia, derivante da una citazione da Le nebbie di Avalon (“L’Inferno è una buona memoria”), riassume in maniera velata la tematica della critica, presente nella saga di Zimmer Bradley, nei confronti dei concetti cristiani di inferno e paradiso: la pagana Morgana, deridendo le credenze religiose della regina Ginevra, afferma che l’inferno non è un luogo, bensì il ricordo di una felicità passata e ormai perduta per sempre. L’inferno è, pertanto, il “risultato del paradiso”: per poterlo sperimentare, bisogna prima aver vissuto il paradiso.    

Infine, un altro motivo per cui Michela Murgia loda l’opera di Zimmer Bradley è la particolare trattazione del tema della maternità.  Infatti, una caratteristica interessante dell’opera è il fatto che nessuna donna svolga realmente il ruolo di madre dei figli che genera: l’unica forma di maternità che i personaggi femminili sperimentano è piuttosto una maternità elettiva, attraverso l’adozione dei nipoti (ciò capita sia nel caso di Viviana nei confronti della nipote Morgana, sia nel caso di Morgause nei confronti del nipote Mordred). Per queste ragioni, Le nebbie di Avalon meriterebbe secondo Murgia di essere annoverato fra i romanzi che hanno dimostrato alla letteratura contemporanea la possibilità di un diverso genere di narrazione, prima ancora di opere come Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood (1986) e Il gigante sepolto di Kazuo Ishiguro (2015) . 

Eppure, Murgia non incappa nel rischio di rubricare Le nebbie di Avalon come opera femminista tout court, per via di ragioni che da appassionata alla questione non posso fare a meno di condividere.

Innanzitutto riconosce come non si possa parlare di “femminismo” al singolare, bensì di “femminismi”, di più correnti anche piuttosto eterogenee all’interno dello stesso movimento culturale che ha tuttavia come base comune, e imprescindibile, la parità di dignità e diritti tra i due sessi.

Un errore purtroppo assai diffuso è quello di assumere una sola e precisa corrente ideologica, all’interno del femminismo, come unica rappresentativa dell’intero movimento: errore commesso spesso per ingenuità, ma ancora più spesso come deliberato mezzo da parte del patriarcato per distruggere la varietà di pensiero o per sfruttare le divergenze di opinione a proprio favore. L’opera di Zimmer Bradley potrebbe essere catalogata sotto una certa corrente del femminismo, più vicina alle correnti esoteriche del neopaganesimo wiccan, ma potrebbe non rispecchiare gli ideali del movimento in toto.

Murgia inoltre si sofferma criticamente sul tipo di potere detenuto dalle protagoniste de Le nebbie di Avalon, legato alla sfera magico-religiosa: la scrittrice nota che ciò non è affatto una novità nella narrativa fantastica occidentale, che abbonda di fate, streghe o maghe il cui fascino sta nella loro energia irrazionale e misteriosa – contrapposta alla logica “trasparente” degli uomini. Gli incantesimi delle donne di Avalon sono legati al loro corpo e non all’intelletto, alla sacralità dei rituali sessuali e riproduttivi, in nessun modo connessi a una qualche abilità intellettuale o culturale. Infine, Murgia sferza una critica all’audace associazione fra paganesimo politeista e femminismo che Zimmer Bradley propone, notando come dietro a molti personaggi femminili del libro si possano scorgere addirittura figure di donne bibliche (come Miriam, la strega di Endor, Maria). 

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Non posso fare a meno di schierarmi a favore di Murgia su tali perplessità circa il romanzo di Bradley Zimmer, aggiungendone delle altre. Come già affermato, il romanzo contiene al suo interno diversi topoi letterari che sembrano confermare l’opera all’interno della tradizione, piuttosto che svincolarla da essa. Fra questi, vi è un elemento magico che già Murgia ha notato, ovvero il fatto che le sacerdotesse proteggano l’isola di Avalon avvolgendola sotto una coltre di nebbia, che esse sole possono diradare. Questa immagine del nascondimento femminile è in realtà conforme al comune comportamento adottato nelle donne nelle opere letterarie, così come nella realtà storica (si pensi soltanto alle donne vincolate al gineceo nell’ Atene classica); tale topos è riconoscibile anche nelle tecniche di combattimento adoperate dalle guerriere della saga di Zimmer Bradley, molto più portate per la strategia che non per la battaglia in campo aperto. Più in generale, le donne de Le Nebbie di Avalon sembrano agire in maniera indiretta, limitandosi ad esercitare una forte influenza sul potere maschile ma senza arrivare mai a sostituirlo o quanto meno ad affiancarlo. 

In effetti, il potere magico e religioso che in taluni periodi della storia è stato attributo alle donne, con tratti più o meno positivi (si pensi al fenomeno della stregoneria), è in realtà il misero sostituto di un potere effettivo: ben lungi dal rendere libero e attivo chi lo detiene, pone il suo stesso detentore in una condizione di subalternità rispetto a una forza superiore che, in quanto tale, è controllabile soltanto in misura parziale. Le maghe e le streghe sono a loro volta vincolate alle forze naturali che cercano indirettamente di manovrare (attraverso rituali, filtri e incantesimi), ma la loro azione non le porta mai a liberarsi da esse. Allo stesso modo, l’influenza magica che le donne di Avalon esercitano sugli uomini è grande, ma il potere di questi ultimi è talmente irraggiungibile da rendere il femminile una presenza “dietro le quinte”: talvolta rassicurante, talvolta minacciosa, ma pur sempre un passo indietro rispetto all’uomo.

Si tratta della stessa odiosa mentalità che soggiace al noto detto, solo apparentemente femminista, del “dietro a ogni grande uomo c’è una grande donna”: non importa quanto la donna in questione possa essere abile in un determinato settore; ciò che conta è che ella ponga la sua abilità al servizio di un uomo il cui nome ottenebrerà i suoi effettivi meriti (spesso attraverso lo scaltro strumento dell’amore romantico).   

Anche il topos della rivalità femminile, presente in tanta della narrativa antica e moderna, si presenta come riflesso del fenomeno sociale che vede l’universo femminile diviso, a causa delle spinte separatrici attuate dal patriarcato. Anche questo topos è presente nel romanzo di Zimmer Bradley attraverso la contrapposizione fra la pagana Morgana e la cristiana Ginevra, rivali non soltanto a causa di Artù (fratello e insieme amante di Morgana) ma anche per via della diversità religiosa.                                                               

A mio parere c’è da notare che, nonostante il paganesimo pre-cristiano sembri accordare maggior potere alle donne, neppure tale forma religiosa pare permettere loro un’esistenza realmente libera: anche le sacerdotesse descritte nel romanzo vivono la forzatura di matrimoni combinati, maternità non desiderate, amori stroncati sul nascere in virtù della convenienza. E’ una religione che dà loro una qualche forma di potere (per quanto sempre indiretta e mediata dall’elemento maschile), ma il potere non coincide con la libertà, anzi: talvolta ne è il suo esatto contrario.    

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Infine, vi è un ultimo elemento che pone la saga di Zimmer Bradley in un filone letterario non femminista ed è, a mio avviso, il più pericoloso. L’autrice introduce un particolare narrativo non presente nella materia bretone, ovvero il fatto che la giovane sacerdotessa Morgana venga consegnata a un uomo mascherato all’interno di un rituale sessuale, senza sapere che quell’uomo altri non è se non suo fratello Artù, da cui è separata dall’infanzia. Soltanto al mattino dopo, i due si riconoscono. Anni dopo, Morgana torna alla corte di Artù come dama di sua moglie Ginevra, ma i due fratelli rimangono sempre oscuramente legati affettivamente in seguito a quell’imprinting sessuale. Probabilmente l’autrice introduce questo particolare dell’amore incestuoso per rafforzare l’idea di potere potenziale che Morgana avrebbe, in quanto insieme signora di Avalon, maga, sacerdotessa, sorella del re e anche sua prima amante; potere che, tuttavia, ella non potrà mai realmente porre in atto.

Ciò che è preoccupante di tale rivisitazione della trama non è tanto l’elemento dell’incesto, che può corrispondere a una realtà storica di matrimoni combinati all’interno delle antiche famiglie nobili (spesso fra parenti più o meno stretti): il problema è piuttosto il taciuto legame sentimentale che si viene a creare fra Artù e Morgana in seguito a quello che è, a tutti gli effetti, uno stupro giustificato dalla religione. Ciò che è a tutti gli effetti una violenza (in quanto Morgana non esprime il proprio consenso a giacere con il fratello) viene affievolito costruendo una successiva infatuazione fra i due, che di fatto giustifica l’atto che la precede.  Tale “romanticizzazione” di una violenza sessuale rientra nella cosiddetta “cultura dello stupro”, un fenomeno attraverso cui lo stupro è giustificato nei media e nella cultura popolare, essendo la sua gravità sminuita o ricondotta a una condizione di normalità.

Di fronte a tali considerazioni, si può ancora considerare l’opera di Zimmer Bradley come femminista? La mia risposta è che, probabilmente, ben poche opere letterarie potrebbero realmente fregiarsi del merito di rispettare tutti i criteri della parità di genere: anche qualora vi sia un avanzamento in tale direzione, è possibile ancora rintracciare elementi che sembrino contraddirlo. Ciò è a mio parere conseguenza del fatto che il femminismo sia ben lungi dall’essere un fenomeno concluso, culminato in una definitiva condizione di uguaglianza fra i generi: esso è al contrario un processo ancora in corso, i cui rappresentanti possono essere per alcuni aspetti più aperti alla progressione, per altri ancora più o meno consapevolmente legati a secoli di cultura patriarcale. Un vizio comune a tante scrittrici e scrittori che si preoccupano di adattare le proprie opere a un’ideologia paritaria è quello di attingere materiale da una tradizione che, per ovvi motivi storico-culturali, non può fornire loro sufficienti modelli. 

L’ autore può, come nel caso di Zimmer Bradley, rielaborare tale materiale e modificarlo in parte: tuttavia, il confronto con l’autorevolezza del modello può impedire di compiere una vera rivoluzione di determinati ruoli, trame e caratteristiche dei personaggi. Il problema della rielaborazione dei classici, in altre parole, non è il fatto che l’autore sia dipendente da un determinato modello, ma che spesso la sua nuova opera non sia autonoma rispetto ad esso. E’ possibile apprezzare sia l’originaria Odissea di Omero che le innumerevoli rielaborazioni che tale testo ha incontrato nella cultura occidentale (si pensi anche solo all’Ulisse di Joyce o al film 2001: Odissea nello spazio), solo se siamo in grado di riconoscere il rapporto di derivazione di queste ultime dall’epica greca e al contempo il loro porsi come opera autonoma, altro rispetto al modello.

Ciò non significa che il testo di riferimento (come la materia bretone, nel caso de Le Nebbie di Avalon) debba perdere di valore agli occhi dei lettori moderni, ma che ciascun’opera letteraria debba innanzitutto essere giudicata in sé stessa, e solo successivamente in relazione ad altre. L’errore di Zimmer Bradley è stato pertanto quello di limitarsi a cambiare il punto di vista della narrazione, senza pervenire a un reale cambiamento nelle funzioni dei personaggi: le donne, anche in questa saga, non sono ancora personaggi attivi, che decidono liberamente di sé stesse e del proprio destino.

Se l’autrice non ha compiuto tale passo decisivo, è probabilmente in virtù del rispetto della storicità del racconto: questo è proprio ciò che intendo per mancanza di autonomia rispetto al modello originario. Dato che Le Nebbie di Avalon è un romanzo fantasy, tanto valeva per l’autrice infrangere del tutto i criteri di verosimiglianza e storicità e creare delle figure femminili realmente attive nella narrazione. Questa mia considerazione non mira certo a inficiare la valutazione complessiva dell’opera, ma si limita a rispondere alla domanda: “cosa manca a Le Nebbie di Avalon per essere davvero femminista”? 

La riscrittura dei racconti della tradizione, in sintesi, è un’operazione più che apprezzabile nell’ottica dell’ideologia femminista, ma solo se siamo davvero intenzionati a scrivere una nuova storia. Non dobbiamo aver paura di sperimentare: è arrivato il momento di osare.