Il genio espressivo di Ligabue in “Volevo nascondermi”

Sappiamo che il cinema, come tutte le forme d’espressione artistica, ha sofferto molto in questo periodo. Pertanto, vogliamo celebrare la riapertura delle sale e la fine (speriamo) di questo lungo tempo senza il grande schermo.

Ecco la recensione dell’ultimo film che ho visto al cinema lo scorso anno.

È uscito nelle sale a sorpresa, in ritardo causa corona virus, il film di Giorgio Diritti sulla vita del pittore Antonio Costa, in arte Ligabue, una delle figure più emblematiche del XX secolo. Pittore e scultore, come tra i più importanti oggi ricordati, si inserì all’interno della scena artistica italiana ed internazionale negli anni più cupi del Novecento, tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. 

Di origini italiane, adottato e cresciuto da una famiglia svizzera, subì parecchie esperienze traumatiche durante l’infanzia, che ne determinarono poi l’indole schiva e solitaria e le forti crisi psicologiche. Segnato da disturbi fisici evidenti e da gesti di autolesionismo, l’artista fu espulso più volte dalle scuole e rimpatriato in Italia, in Emilia Romagna, dove ebbe diversi ricoveri in ospedali psichiatrici.

Il nome del film prende spunto da un atteggiamento di Ligabue ben sintetizzato all’interno della trasposizione cinematografica: la sua abitudine di nascondersi all’interno di un sacco, o della propria giacca, come veniva costretto a fare da bambino, quando subiva una punizione.

La sua perdita di contatto sociale si evince anche dallo stile nomade che perseguiva, trascorrendo lunghi periodi nelle campagne, senza alcuna forma di aiuto o sostentamento.

Il registra mette in mostra, attraverso lunghe sequenze spesso buie e silenziose, come fosse proprio il disagio dell’artista, che oggi definiremmo diversità, e la sua malattia a farlo vivere in una dimensione tutta sua, dove nascondersi corrispondeva alla possibilità di vivere in modo libero, senza le restrizioni a cui si era sempre ribellato e senza la paura di essere ferito o giudicato.

Già, perché il famoso Tony, come lo chiamavano gli amici, aveva avuto un profondo contatto con la sofferenza, la fonte principale di esperienze che avevano segnato tutta la sua vita.

Locandina del film, Regia di Giorgio Diritti.

Elio Germano, vincitore dell’Orso d’oro alla Berlinale, incarna in modo del tutto personale la “follia” dell’artista, trasmettendo allo spettatore una sorte di divertimento, di “liberazione” nel poter mettere in scena un genio artistico del tutto incompreso nella vita personale.

La fama e il riconoscimento lo riscattarono negli ultimi anni della sua esistenza, in cui potè dare sfogo alle sue innumerevoli passioni, dalle moto alle macchine. Entrava in contatto con la parte più selvaggia del mondo, con la natura, che metteva poi su tela nel modo più vivido possibile.

In una scena del film, Ligabue va a comprarsi un cappotto di lana e il suo autista personale lo deride a causa del fatto che si trovassero nel mese di luglio. La sua risposta è sorprendente: aveva patito talmente tanto freddo nella vita da non riuscire a sentire nemmeno cosa fosse il caldo.

Nella trama emerge prepotentemente anche la parte emotiva dell’uomo, l’uomo e non l’artista, che Germano vivifica su tutti i fronti: il suo ruolo di figlio senza affetti, la sua innocenza e sensibilità verso i bambini, la paura per le donne ma la voglia di essere amato, nonostante l’aspetto deforme.

Pochi dialoghi ma efficaci, spesso sottotitolati, dal tedesco al dialetto emiliano. Versi, movimenti, azioni e inquadrature che ci guidano attraverso un percorso del tutto inaspettato, verso una vita vissuta appieno.

Scene lunghe e dettagliate, stranezze e normalità sono al centro del suo successo.

Alla fine Ligabue muore troppo presto, muore per sbaglio. Non era pronto a lasciare la vita, ne sentiva ancora l’ebbrezza in tutte le sue forme. Aveva ancora mille modi di esprimere se stesso e di dare voce alla parte più intima e nascosta dell’essere umano, la propria fragilità.

Questa storia, rappresentata in modo naturale e coinvolgente, lascia interdetti davanti ad un grande interrogativo: cos’è la normalità e cosa non lo è?

Ciò che non è socialmente accettabile è sempre sbagliato?

Elio Germano, al ritiro del premio stesso, ne ha fatto un simbolo con la sua dedica:

«Lo voglio dedicare, questo premio, a tutti gli storti, tutti gli sbagliati, tutti gli emarginati, tutti i fuori casta e ad Antonio Ligabue e alla grande lezione che ci ha dato, che è ancora con noi, che quello che facciamo in vita rimane.»