Recensione di Maria Laura Riccardi
Tra le tante vite che il 2020 ha portato via c’è stata anche quella di uno degli scrittori più talentuosi e letti al mondo: infatti, il 19 giugno, è stata annunciata la morte di Carlos Ruiz Zafòn, che da tempo lottava contro un’aggressiva forma di cancro.
A distanza di otto mesi, la Mondadori pubblica la sua unica opera postuma, ovvero una raccolta di racconti in stile gotico, firmata proprio dal geniale scrittore spagnolo.
Una bellissima notizia per tutti quelli che, come me, con la morte dello scrittore si sono sentiti un po’ orfani e portatori dell’eredità zafoniana.
Io, già da dicembre, avevo avvistato l’edizione spagnola in una famosa libreria locale, ma avevo resistito al desiderio di acquistarla. Aspettavo il lancio di quella italiana, data la complessità della prosa e la ricercatezza dei termini per leggere Zafòn nella propria lingua madre.
Era, quindi, da tempo tutto programmato e avevo segnato la data dell’evento sul mio calendario: il giorno 9 febbraio 2021.
A distanza di un mese, posso quindi finalmente raccontare la mia esperienza a riguardo.

“Dopo un po’ padre e figlio si confondono tra la folla delle Ramblas come due figura di vapore, i loro passi perduti per sempre nell’ombra del vento”.
L’ombra del vento
Premetto che l’edizione da me letta è in formato digitale, anche a causa dell’esoso prezzo di quella cartacea, che però non mi meraviglia data la fama (meritata) dello scrittore.
All’ inizio del libro, nella nota del curatore Emile de Rosiers Castellaine (mentre il traduttore italiano è il celeberrino Bruno Arpaia), viene raccontato come quest’opera fosse stata concepita da Zafòn come “estensione” del proprio paradigma letterario, che però non vide la luce dopo l’uscita de Il labirinto degli spiriti, nel 2016.
Effettivamente, la maggior parte dei racconti richiama e rimescola i nomi e le vite degli indimenticati protagonisti della tetralogia de Il cimitero dei libri dimenticati. Le narrazioni sono abbastanza brevi, mentre qualcuna si distingue per maggior corposità.
Stilisticamente non c’è nulla da dire: sono ben scritti, rispecchiano completamente il compianto stile gotico zafoniano, a volte accentuandolo, ma spesso risultano fin troppo brevi per goderne, tipo leggende fine a loro stesse.
Caratteristica è, ovviamente, la quasi onnipresente ambientazione barcelloniana, diventata un vero e proprio topos nelle opere dell’autore, che ne ricalca ed amplifica il fascino.
Ma… devo essere sincera. L’aspettativa era alta e, in parte, è stata delusa.
Ho fatto fatica a leggerlo tutto d’un fiato, cosa che invece si è verificata con tutti suoi libri letti in precedenza.
Indubbiamente è una degna raccolta di racconti, ultima impronta di un autore leggendario, ma non ha lasciato il segno.

Il perché? Il confronto, involontario quanto necessario, con i suoi capolavori.
Un paragone “scomodo” che da sempre si verifica quando grandi scrittori e scrittrici si cimentano in un genere diverso da quello che li ha resi intramontabili.
Mi riferisco, infatti, ai romanzi Marina, alla Tetralogia del cimitero dei libri dimenticati (composta da L’ombra del vento, Il prigioniero del cielo, Il gioco dell’angelo e Il labirinto degli spiriti) e alla Trilogia della nebbia (Il principe della nebbia, Il palazzo della mezzanotte, Le luci di settembre).
In particolare, la saga del cimitero dei libri dimenticati lo ha consacrato alla storia della letteratura come uno dei maggiori autori di questo XXI secolo, tanto che è considerato lo scrittore spagnolo più letto al mondo dopo Miguel de Cervantes, l’autore di Don Chisciotte della Mancia.
Curioso è come proprio un racconto del libro La città di vapore sia ispirato alla vita di Cervantes, che Zafòn considerava un maestro ed un mito intramontabile.
Il testo in questione si chiama Il principe del parnaso ed è uno di quelli che mi ha colpito di più all’interno del libro. Di maggiore lunghezza ed intensità, rimescola le carte della vita dell’autore, vissuto nel 1600, costruendo una leggenda in cui prendono vita anche il vecchio Sempere, Andreas Corelli e un improbabile Sancho Fermin de la Torre.
“La commedia ci insegna che la vita non bisogna prenderla sul serio e la tragedia ci insegna cosa succede quando non diamo retta a ciò che la commedia ci insegna”
spiegò Cervantes, pagina 125

Ci sono alcune parti, in questo racconto, in cui credo Zafòn abbia rivisto se stesso e il rapporto con la letteratura e la fama comparandoli a quelli vissuti da Cervantes, che invece vide la gloria letteraria solo in tarda età, ed aleggiano ancora molti dubbi sulle sue vicende personali e sul collocamento delle sue spoglie.
“Lei una volta ha perso ciò che più amava o credeva di amare in cambio della possibilità di creare un capolavoro”.
Il principe del parnaso
Per concludere: l’opera è un omaggio al mondo zafoniano in toto e merita di essere letta.
Ma, per me, il ricordo più grande dello scrittore spagnolo resterà indelebile nelle pagine dei suoi romanzi, da leggere e rileggere, e da custodire, parola per parola, come tesori.
Zafòn ha dedicato la propria vita alla buona letteratura che, contrariamente all’uomo, non muore mai.
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One Reply to “La città di vapore, l’ultima opera di Zafòn”
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